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5 cose che vorrei dire a Bill Viola

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un breve documentario realizzato dal Louisiana Museum of Modern Art su Bill Viola, il famoso videoartista americano. Apre il documentario il frammento dell’opera The Raft  (2004), in cui una ventina di persone diversissime tra loro pare aspettare un autobus, quando viene investita in slow motion da un’ondata d’acqua. Da altri spezzoni di opere, alcune più datate come The Crossing (1996) e altre più recenti come Inverted Birth (2014) appare chiaro il legame dell’artista con l’acqua.

Il documentario mostra lo studio all’interno della casa in cui l’artista lavora, pieno zeppo di libri ovunque. L’origine delle opera di Viola è molto culturale e spesso spirituale, nutrita di poesia, come nel caso di Room for Saint John of the Cross (1983), la video installazione dedicata al martire mistico e poeta cristiano del ‘500 San Giovanni della Croce.

L’artista definisce il proprio lavoro come un’indagine costante su se stesso, una scavo che scandaglia incessantemente la propria personalità e la vita stessa. “There's more than just the surface of life" Viola spiega. "The real things are under the surface". Perciò rimango a bocca aperta quando, alla domanda dell’intervistatore sul perché della ricorrenza così forte dell’acqua nelle sue opere, l’artista confessa candidamente di averne realizzato il motivo solo recentemente, grazie alla domanda di un giornalista: “Sig Viola, forse è successo qualcosa nella sua vita, che ha in qualche modo causato questa sua attrazione per l’acqua?”

E lì, dopo anni e anni di indagine su se stesso, Viola finalmente collega l’acqua ad uno dei suoi primi ricordi: a 6 anni cadde in un lago, scese fino a toccare il fondo, un luogo che gli sembrò paradisiaco. Fu salvato dallo zio che si trovava con lui.

Mi sembra pazzesco. Stupita, mi chiedo come può un artista dedicato all’esplorazione delle proprie visioni, intuizioni, ispirazioni, concentrato sull’elaborazione attraverso il proprio sguardo personale del mondo, essere così poco consapevole della propria storia e degli eventi cruciali che hanno formato quello stesso sguardo protagonista delle proprie opera.

Certo, da una parte il fascino del lavoro artistico consiste nella spontaneità, nell’abbandonarsi al flusso dell’idea, senza interporre interpretazioni e auto-analisi. O forse Bill Viola - come confessa Doris Lessing “Da che ho memoria l’ho sempre fuggita” - non si trova a proprio agio con la propria memoria.

D’altra parte, è evidente il paradosso di un lavoro che vuole indagare la propria soggettività ma, allo stesso tempo, la ignora, volontariamente o no, o la fugge.

Viola, però, pare ricordare l’aneddoto della domanda del giornalista con gratitudine, riconoscendo la preziosità di quel momento epifanico.

E allora, quello che vorrei dire al Sig. Bill Viola – chiedendogli di perdonare la mia presunzione - è:

1.     Caro Sig. Viola, continui a indagare la sua infanzia, che è lo scrigno delle nostre fragilità e passioni!

La memoria, una volta innescata la miccia, continuerà a regalare scoperte e a rivelare nessi. Scrive con tono entusiasta il primo grande autobiografo S. Agostino nelle sue Confessioni: “Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti.”

2.     Se Lei, Sig. Viola, è, come tutti, alla ricerca della felicità, vorrei ricordarle la massima greca iscritta nel tempio di Apollo a Delfi: “conosci te stesso”. Questo detto può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le due conoscenze possono considerarsi due facce di una sola medaglia: una conoscenza viva e attuale non può prescindere dalla mente che conosce

3.     Nel Suo caso, Sig. Viola, è stato il dialogo, con la sua importante funzione di specchio e restituzione, a far affiorare una verità creduta perduta. Provi a sperimentare la scrittura come mezzo di conoscenza di se stesso! L’esercizio regolare della scrittura Le consentirà di intraprendere un percorso di conoscenza di se’ strutturato e completo, attraverso la Sua evoluta capacità di riflessione, la Sua intelligenza, ossia la Sua capacità di intus legere, di leggere dentro se stesso e dentro le cose, andando oltre la superficie

4.     L’autobiografia è diventata una gran moda, questo si sa, perché sancisce l’appartenenza all’Olimpo della notorietà, ma di certo non è appannaggio esclusivo delle star e dei Vip, anzi. Nel suo caso, Sig. Viola, pur appartenendo a questo Olimpo, l’autobiografia può essere un lavoro utile a capire meglio come dare più spessore al proprio lavoro attuale e a progettare con più consapevolezza quello futuro, perché la scrittura di sé è come se portasse alla luce tutto ciò che è stato vissuto, di cui non si ha ancora un’immagine complessiva.

5.     Scrivere di sé, nelle varie forme autobiografiche - dal diario, alla poesia, alle confessioni, alla scrittura contemplativa fino alla forma più compiuta dell’autobiografia vera e propria - non è un’azione narcisistica, ma uno strumento di lavoro faticoso e allo stesso tempo potente, per radicare la propria espressione, rafforzarla, renderla agente di trasfromazione. Scrive l’acculturata ebrea di Amsterdam Etty Hillesum nel suo Diario edito da Adelphi – cronaca in prima persona della persecuzione nazista degli ebrei - “La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d’individualismo malaticcio.  Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso.”

Infine, se decidesse di scivere di sé, caro Sig. Viola, sarei felice di poterla aiutare.

When video artist Bill Viola was 6 years old he fell into a lake, all the way to the bottom, to a place which seemed like paradise. "There's more than just the surface of life." Viola explains. "The real things are under the surface". American Bill Viola (born 1951) is a pioneer in video art.

tags: personal storytelling, bill viola, the raft, louisiana museum of modern art, autobiography
Thursday 04.28.16
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Self-Souvenir: prove di autoritratto kitsch

Se dici kitsch la prima cosa che ti viene in mente è un oggetto, dalla statuetta metereologica al pesce palla imbalsamato, dal maculato ai tessuti animalier in genere, dai pantaloncini tirolesi al boa di struzzo. Quando Federica Bianconi, curatrice di #theStrangeDays mi ha invitato a quella pazza 3 giorni d’apertura del Festival della Creatività di Parma, chiedendomi un lavoro sul kitsch, all’inizio ho pensato – in modo presuntuoso e, come avrei presto scoperto, kitsch esso stesso – che il Personal Storytelling c’entrasse poco, se non altro per la sua natura intellettuale, relazionale e fisica.

Poi - in una sottospecie d’illuminazione - mi è venuto in mente che il simbolo del kitsch, cioè il souvenir, l’oggetto-cartolina preso come piccolo trofeo delle nostre peregrinazioni, è il sostantivo francese per “ricordo”, che a sua volta deriva dal latino ricordare, che significa “portare al cuore” (siccome allora si pensava che il cuore fosse la sede della memoria). Insomma, tutti ingredienti di prima scelta della scrittura di sé.

Questo piccolo trip etimologico mi ha galvanizzato a tal punto di accettare la partita.

Poi mi sono ricordata di un’amica che non vedevo da tempo, che s’era laureata col kitsch. Abbiamo preso una birra assieme. Parla, parla, realizziamo che il kitsch è dappertutto, basta scorrere la bachecha di Facebook, fare zapping, guardare la pubblicità. Ma che differenza c’è tra quel tipo di kitsch e l’atteggiamento snob di noialtri, che organizziamo una kermesse del kitsch, con la malcelata intenzione di assaporare il cattivo gusto (proibito) mantenendoci nel buon gusto?

Il nome di quella differenza, che già era nell’aria, lo coniò Susan Sontag negli anni ’60 battezzando lo stile “camp” – dal francese “se camper”, mettersi in mostra. Cioè, nel momento in cui si sceglie deliberatamente qualcosa di stravagante, vistoso, eccessivo, non si è più kitsch (cosa che ha a che fare, a questo punto, con l’ingenuità) ma si diventa camp. A meno che non si faccia del kitsch consapevolmente, ma senza dichiararlo, con la volontà di provocare un effetto sentimentale preciso, come osservò Eco nel caso del pittore Boldini, che dipingeva le donne dalla vita in giù con sapiente tecnica impressionista e dalla vita in su con una precisione pornografica, tesa ad evidenziare le fattezze in pose seducenti, in modo da spacciare un dipinto ad alto tasso erotico per un ritratto di nobildonna.

Quest’idea del prendere le distanze dal kitsch, usarlo con ironia, identificarlo, separarlo, mi è piaciuta e ho cominciato a cercarne esempi in quella che è la materia prima del Personal Storytelling: la letteratura.

Ed ecco un efficace corrispettivo letterario del Boldini nel libro “Deutscher Kitsch” (1962), in cui il critico letterario tedesco Walther Killy crea un maligno pastiche, in cui mette insieme i brani di 6 autori tedeschi produttori di rinomata merce di consumo, accomunati dal voler provocare un effetto liricizzante e disposti ad usare ogni mezzo per farlo – dall’accumulo di verbi allusivi, alla ridondanza di aggettivi liricizzanti, all’utilizzo spropositato di stereotipi poetici.

“Sussurra lontano il mare e nel silenzio fatato il vento muove teneramente le rigide foglie. Una veste opaca di seta, ricamata in bianco avorio ed oro, fluttua attorno alle sue membra e lascia scorgere un tenero collo sinuoso, sul quale gravano le trecce color di fuoco. (…) Brunilde era seduta al pianoforte e faceva scivolare le mani sulla testiera, immersa in un dolce fantasticare. (…) E fuori il vento notturno carezza col tocco delle sue tenere mani la casa d’oro, e le stelle vagano per la notte invernale.”

Sicuramente leggere a voce alta questo estratto – breve ma sufficientemente stucchevole - fa ridere d’imbarazzo, può essere utile a stilare un libro nero delle parole da evitare in poesia, o al limite può far sorgere qualche domanda sulla nazionalità del kitsch e sul perché esso sia etimologicamente nato in Germania ed ivi longevamente studiato (pare che nella seconda metà dell’800 i turisti americani a Monaco, volendo acquistare opere d’arte a poco prezzo, chiedessero uno “Sketch”, parola entrata nell’orecchio e poi tradotto in tedesco come Kitsch.)

Ma ciò che manca in Killy è ancora l’aspetto autobiografico – continuo quindi alla ricerca di esempi di autoritratti kitsch, in cui chi scrive guardi se stesso con il preciso obiettivo di individuarne le manie, le cadute di stile, gli sfondoni, come se stesse facendo non un autoritratto, ma un’autocaricatura.

E’ così difficile prendersi in giro? Eppure tutti abbiamo indossato maglioni coi paesaggi ai ferri, avuto padri con Fiat 850, usato terra d’Africa fino ad avere la faccia arancione e altre amenità, a seconda dei nostri decenni di riferimento. E poi, se come ormai abbiamo capito tutti, l’ironia è vincente, al punto che l’unica pubblicità ormai accettabile è quella che fa ridere, l’auto-ironia dovrebbe esserne la forma più acuta e creativa.

Sia pur con un’interpretazione letterale del kitsch (quella iniziale in cui accostavo questo aggettivo ad oggetti), ci prova a prendersi in giro (sia pur prendendola alla lontana) Guido Gozzano. L’espediente è puramente autobiografico: il poeta, sfogliando un album, ritrova una foto scattata nel 1850 che ritrae sua nonna Speranza con l’amica Carlotta, entrambe diciassettenni e compagne di studio in collegio.

“Loreto impagliato e il busto d’Alfi eri, di Napoleone

i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)

il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

 

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,

 

i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco

chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

 

I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere

che cauti (hanno tolte le federe ai mobili: è giorno di gala).

Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza

la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.”

 

Ricordando le suppellettili di quel salotto borghese con ironia affettuosa, il capostipite dei crepuscolari ammette con tono camp il conforto del kitsch (le buone cose di pessimo gusto!), per diventare invece successivamente corrosivo nei confronti degli zii, anch’essi scontati come souvenir, nella banalità nella conversazione e nel moralismo ipocrita.

Qui sta un passaggio fondamentale: kitsch non è solo ciò che è fuori di noi, ma siamo noi stessi, con i nostri atteggiamenti piccolo-borghesi. E qui si apre l’interessante rassegna del kitsch non più solo estetico, ma sociale, per cui ci attacchiamo eccessivamente alla nostra immagine, fingiamo di essere migliori di quello che siamo, godiamo nel lasciarci andare al sentimentalismo e al voyeurismo, ci crogioliamo nella nostalgica mitizzazione del passato.

Ci da una chicca in questo senso uno che non ha mai fatto mistero dei propri vizi, al contrario: Charles Bukowski, in una delle sue poesie autobiografiche “Quando eravamo giovani”. Qui, oltre a dichiarare il proprio precoce alcolismo, Charles si fa beffe delle preoccupazioni dei genitori.

 

che cosa diranno i vicini

 

i miei genitori erano sempre dietro a chiederlo,

naturalmente non mi importava un fico di

che cosa diranno i vicini.

mi facevano pena i vicini,

codardi che spiavano da dietro le tendine.

l’intero quartiere si spiava addosso

e negli anni trenta non c’era molto da vedere,

eccetto me che tornavo a casa ubriaco

a tarda notte.

 

“finirai per uccidere tua madre”

diceva mio padre,

“e inoltre, che cosa diranno

i vicini?”

 

Con la lettura di questi brani abbiamo iniziato il laboratorio di Personal Storytelling svolto al WoPA, l’ex spazio industriale della metalmeccanica Manzini di fianco alla stazione di Parma. L’intenzione era ispirare un gruppo di simpatici masochisti a scrivere male di sé. Il clima si è scaldato a tal punto che tutti hanno accettato il gioco sporco, arrivando persino a leggere i propri scritti, equivalente ad “autosputtanarsi” pubblicamente. Non male!

A quel punto, tanto valeva sputtanare anche la città che ha ospitato questa mostra e il nostro lavoro!

Ed ecco che allora ci è venuto in aiuto uno specialista in materia, cioè lo scrittore parmigiano Paolo Nori, che pubblica con Feltrinelli, abita a Bologna e racconta questo episodio nel suo romanzo autobiografico (anche se non lo dichiara, è così) Mi compro una Gilera.

“Una volta ero a Mosca, sulla piazza Rossa, c’era una gita organizzata che stavano epr visitare le chiese del Cremlino, con una guida russa, io ho chiesto se mi potevo unire, Certo mi ha detto al guida, di dov’è lei?

Sono italiano.

Si, ma italiano di dove?

Italiano di Parma.

Ah Parma, che città meravigliosa, La Certosa di Parma, ha detto.

E io quando son tornato, devo dire, avevo più considerazione di quando ero partito, di Parma. Mi faceva star bene il fatto che in Russia, sulla piazza Rossa, c’era della gente che pensava che Parma era una città meravigliosa.

C’è uno studioso di Reggio, se non mi ricordo male, che ricostruisce la storia della redazione della Certosa di Parma, il romanzo di Stendhal, e dice che Stendhal la vicenda storica che racconta era una vicenda romana, e che lui la voleva collocare in un piccolo stato, che andavan bene sia Modena che Lucca che Parma, solo che Modena e Lucca secondo lui poi i duchi di Modena e Lucca magari s’arrabbiavano poi poteva avere dei problemi, Stendhal faceva il diplomatico, invece Parma andava bene perché era uno staterello che contava poco e a Parma c’era la duchessa Maria Luigia che lui, Stendhal, che era devoto a Napoleone, la chiamava la femme de ménage, se non mi ricordo male, e non la poteva sopportare perché aveva ripudiato suo marito dopo che era caduto in disgrazia.

Difatti, andare a leggere il romanzo, Parma sembra il buco del culo del mondo, un posto con dei governanti ignoranti, corrotti, dove non succede mai niente, il regno della noia, dell’ignoranza e dell’ipocrisia e una cosa bellissima è che oggi, passati quasi duecento anni, quel romanzo lì è una delle principali glorie di Parma nel mondo e l’albergo più importante di Parma si chiama Hotel Stendhal, o perlomeno così si è chiamato per molti anni adesso ultimamente ne han fatti dei nuovi che sono più importanti di lui.”

Parma vista dagli occhi di un romanziere ottocentesco, di un filologo reggiano, di una guida turistica russa, di un suo cittadino scrittore dissacrante, di noialtri cittadini spesso ignoranti e vanagloriosi. Un gioco di sguardi che può andare avanti all’infinito, come dentro ad un cristallo lavorato geometricamente.

E dall’esilarante Nori siamo passati all’ultimo atto del laboratorio, con finale a sorpresa. Avevo preparato per ogni partecipante un ritratto kitsch – in base alla loro storia o semplicemente alle suggestioni del loro viso, per chi non conoscevo - a suon di Photoshop (che io sappia non l’hanno ancora inventata un’App per farti un selfie kitsch…chissà forse dopo questo arriverà). Sono rimasti stupiti, sì. Nessuno si è rivoltato e nessuno ha avuto il coraggio di impedirmene la diffusione.

Come nell’Odissea, in cui Ulisse riconosce la grandezza delle proprie gesta solo quando sente l’aedo cieco decantarle alla corte dei Feaci, così ho chiesto ai partecipanti di lasciarsi invitare a scoprire qualcosa di sé (di piccolo, più che di grande) attraverso lo sguardo dell’altro - cioè il mio, in questo caso.

Ancora una volta, l’esercizio ha funzionato. Abbiamo concluso il laboratorio appendendo ognuno il proprio ritratto al chiodo e dando forma così all’esposizione.

Ma, nonostante tutti i miei sforzi, devo ammettere che, accidenti, il miglior esempio di autoritratto kitsch me l’ha servito il mattino dopo Italo Rota al convegno THINKITSCH, mostrandoci l’episodio dei Simpson su Frank Gehry.

L’architetto dei Guggenheim appare nel cartoon come un vecchio superbo e cinico, le cui opere stravaganti sembrano frutto di una demolizione più che di una costruzione. Ebbene, la cosa incredibile, è che a scrivere la sceneggiatura di questo video è stato proprio lui, Frank Gehry in persona! Incredibile, ma vero! O sarà solo buona pubblicità?

tags: Personal Storytelling, laboratorio, kitsch, #theStrangeDays, #parma360
Monday 04.11.16
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Kitsch in my Life!

Tuesday 04.05.16
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Breakin' out with my uncle's car

Breakin' out with my uncle's car: un titolo evocativo per un'installazione che risusciterà il clima underground dell'Emilia anni '80.

Come?

Ecco la presentazione del lavoro scritta da Guido Molinari, professore, curatore e critico d'arte, nonché  membro dei KKD.


"La proposta installativa del gruppo KKD è incentrata sull'esposizione di un'automobile vintage degli anni Ottanta che diviene oggetto estetico attraverso l'utlizzo di videoproiezioni e insonorizzazione. L'automobile, una Lancia Fulvia del 1969, conterrà quattro sagome di cartone con i volti dei musicisti, sul parabrezza, verranno proiettati i videoclip tratti dal disco di recente pubblicazione “Stars Behind The Sun”.

La musica del disco, registrato tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, verrà diffusa nell'ambiente tramite gli altoparlanti interni dell'automobile. Nei tergicristalli posteriori saranno visibili alcuni volantini in quanto espressione grafica del clima culturale “anni Ottanta”, ed il cui contenuto è legato ad esibizioni e concerti di quel periodo.

L'installazione intende rievocare i viaggi in auto che in quegli anni consentivano un aggiornamento culturale e più in generale una occasione di avventura e divertimento: se oggi ci si connette ad internet per poter avere accesso a qualsiasi contenuto estetico, allora la presenza fisica sul luogo era fondamentale per poter comprendere e valutare ogni elemento di novità per poi rielaborarlo e reinterpretarlo.

Andare in auto ai concerti, a feste che costituivano un punto d'incontro o ad altre occasioni simili, era un aspetto determinante dello spirito di quel periodo. L'installazione intende rievocare quel clima e quegli anni con la musica di quel periodo e con i video che costuivano un elemento di forte novità e sperimentazione.

Di particolare importanza appare il lato più puramente estetico rappresentato dalla presentazione dei volantini e dell'installazione stessa, nel suo complesso, a testimoniare un clima di compartecipazione delle arti, che caratterizzava l'aria del tempo."

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Tuesday 03.22.16
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Storia di una drammaturgia irregolare

A volte ci immaginiamo che i progetti nascano come ci insegnano a scuola. Nel caso di uno spettacolo teatrale, in sequenza la scrittura di un testo, la trasposizione scenica, la ricerca degli interpreti, il lavoro attoriale, le prove, la prima. Vi voglio raccontare una storia diversa, quella dello spettacolo LDM Labirinti del Male.

Era il 2012, Luciano Garofano, da generale inventore dei RIS italiani a scrittore esperto in materie forensi, aveva pubblicato da poco il suo libro Labirinti del Male e, da uomo vulcanico qual’è, aveva in mente di tirarne fuori una trasposizione in un medium che potesse portare le storie delle protagoniste del libro più vicino al pubblico. Fu così che fece incontrare lo scrittore Francesco Zarzana con Alessandro Molinari, regista e videomaker nonché mio socio di vita e lavoro. Si cominciò a lavorare all’idea di una messa in scena teatrale. Venne scelta come interpete Giorgia Ferrero, una giovane attrice che avrebbe partecipato poi a La Grande Bellezza di Sorrentino.

Io guardavo tutto da lontano: il mio secondogenito aveva pochi mesi ed io era assorbita completamente da lui e dal compito dell’allattamento, cui mi dedicavo come una missione. Avrei voluto partecipare in modo più diretto e concreto a quel progetto che toccava un tema urgentissimo della nostra società. Avrei voluto fare qualcosa di più di un generico sostegno morale, direzionando la mia creatività per un fine importante per la collettività.

Al di là del mio punto di vista, l’opera crebbe e sbocciò. Zarzana scrisse il testo e curò la regia e Molinari scrisse le musiche e girò con Giorgia Ferrero vari video clip che intervallavano l’azione scenica, che animava la prima parte dello spettacolo, seguita poi dalla conferenza multiemdiale tenuta da Garofano. Il lavoro debuttò il 5 maggio 2013 al Teatro Asioli di Correggio.

La sera stessa del debutto, però, successe un episodio sgradevole che creò una rottura nel gruppo di lavoro. Si cercò di rimediare per alcuni mesi, senza riuscire a trovare una soluzione. Naturalmente, sarebbe stato un peccato buttare via tutto. C’erano tanti pezzi che, nonstante tutto, restavano a galla, come dopo un naufragio: un’attrice senza più parte, vari videoclip con lei come protagonista, musiche coinvolgenti, gli interventi di Luciano Garofano su stalking, cyberbullismo, nuove tecnologie e sviluppi legislativi. E, soprattutto, c’era l’interesse della gente per un modo diverso di accostare questi temi - un modo più delicato e costruttivo rispetto al sensazionalismo televisivo.

Nel frattempo erano passati i mesi ed io avevo ripreso a lavorare. In quel periodo la cantautrice italo-americana Laura Trent chiedeva ad Alessandro di girare il videoclip del suo brano Emily – guarda caso la storia di una donna in pericolo, disperata, che grida aiuto perché non riesce a salvarsi da sola. La connessione fu presto fatta: l’interprete di quel video diventò Giorgia, protagonista di LDM e fece una comparsa pure Luciano Garofano.

Questa nuova riattivazione di energie attorno al progetto smarrito mi fece fare un passo: proposi di prendere in mano i vecchi pezzi naufragati con i nuovi. Volevo immaginare una storia che potesse tenerli tutti assieme, come una specie di isola deserta su cui approdare e convivere.

Studiai il materiale e la mia storia nacque così, all’incontrario, come un collante che andasse a riempire i vuoti, a creare dei passaggi tra un’immagine e l’altra, tra un caso di cronaca e l’altro, accompagnando lo spettatore dall’inizio alla fine con la storia di un uomo e di una donna come tanti, incapaci di far crescere amorevolemnte il loro rapporto.

Fu proprio quella la sfida: non limitarmi a scrivere un pezzo teatrale avulso dai tutti i precedenti, un brano a se stante che fungesse da preambolo o epilogo alla parte didattica. No, volevo sperimentare una drammaturgia nuova, in cui i vari media - presenza scenica attoriale, video, presenza scenica didattica, testo, musiche e naturalmente il video clip “Emily” – potessero amalgamarsi in un unicum che accompagnasse lo spettatore su temi via via diversi, ma sempre con un pathos vivo e acceso, attraverso un coinvolgimento emotivo dato non dalla spettacolarizzazione dell’evento sanguinoso, ma da tutto ciò che lo precede e che subdolamente porta la relazione a un inasprimento vicino alla disperazione.

La mia storia ha voluto soprattutto riflettere sul linguaggio, su quel linguaggio quotidiano e familiare che crediamo di parlare, ma che in realtà “ci parla”, “ci plasma”, impastandoci di mancanza di rispetto e ingiusto senso di possesso. Ho voluto anche portare in scena lui: troppo spesso viene mostrata la vittima, mentre l’aggressore rimane nel buio, nascosto, coperto dall’alibi della pazzia o della mostruosità. E’ importante invece cercare di capire chi è l’uomo che uccide e tracciarne un identikit, per imparare a riconoscerlo e a difendersi.

Così, in modo irregolare e imprevedibile, proprio com’è la storia delle storie, cioè la Vita, è nata la versione 2 di LDM che ha girato varie città d’Italia e che in questo prossimo 8 marzo approderà a Merate, nei pressi di Milano.

Uno spettacolo che ora già si prepara già alla versione 3 – quella di un Laboratorio di Educazione alla Relazione per le scuole, in cui saranno gli studenti a raccontare la violenza, anzi per esteso le violenze – a partire dal loro punto di vista e dalla loro esperienza. I ragazzi prenderanno in mano LDM per farne uno spettacolo dei ragazzi per i ragazzi. Ma questa è un’altra storia e ve ne parlerò in un post successivo!

tags: labirintidelmale, drammaturgia, storytelling, luciano garofano, giorgia ferrero, laura trent, alessandro molinari, giulietta kelly, elisa barbieri, rotary club, monica rivolta
Saturday 03.05.16
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8 marzo a Merate (MI) con l'opera di teatro contro la violenza LDM Labirinti del Male

Il Rotary Club Colli Briantei, il Rotary Club Merate Brianza ed il Rotaract contro il femminicidio, lo stalking e la violenza sulle donne.
In occasione della festa della donna dell’8 marzo, una serata a teatro, ad ingresso gratuito, nell’Auditorium di Merate, con l'opera di teatro didattico contro la violenza sulle donne ‘I LABIRINTI DEL MALE’, scritta da Elisa Barbieri (Giulietta Kelly) con il gen. Luciano Garofano, già comandante dei RIS dei Carabinieri, che sarà anche protagonista - interpretando se stesso - nella messa in scena di Alessandro Molinari.

"Violenza sulle donne e femminicidio – spiega la dott.ssa Monica Rivolta, presidente del RC Colli Briantei - non sono certo fenomeni nuovi per il genere umano. Ma è vero che sembrano amplificati per numero e gravità in funzione di un'informazione che viaggia veloce e, troppo spesso, sovraespone il fatto di cronaca senza approfondirlo nelle sue dinamiche psicologiche.Il senso di un'opera teatrale come "I Labirinti del Male" è proprio quello di agire in controtendenza, insegnando alle donne come riconoscere un possibile stalker: l'aggressore nascosto sotto le mentite spoglie del corteggiatore, dell'uomo che si dichiara pronto ad uccidersi, e quindi ad uccidere, per amore. Sì, amore malato. Uno spettacolo didattico, rivolto alle donne, ma non solo, ai genitori, agli educatori, a tutti. Perché nessuno possa più dire nelle interviste televisive, parlando del vicino di casa, responsabile di un delitto: "Sembrava una persona normale, non avrei mai sospettato potesse arrivare a tanto...". Esiste l'attenzione per l'altro, la partecipazione, lo spirito d'osservazione che, se correttamente sviluppato, aiuta a cogliere i segnali premonitori di una tragedia".

Più info sulla replica

evento Facebok

Più info sullo spettacolo

www.labirintidelmale.it

tags: violenza, stopviolence, labirintidelmale, LDM, luciano garofano, alessandro molinari, elisa barbieri, giulietta kelly, laura trent, giorgia ferrero, rotary club, monica rivolta, matteo notaro
Saturday 03.05.16
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5 buoni motivi per scrivere per se’ (non per pubblicare)

Ho terminato la mia autobiografia, stampata, rilegata, spedita a una lettrice incognita, infilate tra una Dickinson e un Balzac le copie destinate ai figli una volta raggiunta la maggiore età.

Mi sento sollevata ma soprattutto svuotata, come dopo ogni grande consegna. Cerco di riempire il vuoto parlandone con amici, i quali mi chiedono tutti se la pubblicherò. Noto che quando rispondo di no, l’interesse per il lavoro inesorabilmente scema.

La cosa mi delude un po’, così mi consolo traendone “food for thought”. Conosciamo bene i vantaggi della pubblicazione: qualche guadagno, gratificazioni, nuovi contatti e notorietà in caso di successo editoriale.

Certamente risulta più difficile capire perché mai ci si dovrebbe limitare a scrivere per se’ e per pochi eletti. Ma vi assicuro che non si tratta di un’idea insensata e qui di seguito proverò a convincervi con 5 motivazioni:

  • La libertà di seguire i propri gusti (e non quelli del mercato)

scrivere per sé significa non doversi preoccupare di quali sono i generi e i temi che vanno per la maggiore - possiamo scrivere ciò che più ci interessa e ci attrae, cercando di soddisfare un solo lettore (cha, tra l’altro, conosciamo benissimo): noi stessi. Niente sciatteria, quindi, anzi, al contrario, faremo di tutto perché lo stile della nostra opera ci assomigli più possibile

  • Portersi rivelare nella scrittura

scrivere per se’ consente di potersi rivelare nella scrittura nella propria intima sincerità, senza dover usare la scrittura per esprimere e allo stesso tempo celare, per nascondere aspetti di se’ che non si vorrebbero fossero riconosciuti, da nessuno o da qualcuno

  • Fare un dono e creare connessioni sintoniche

scrivere per se’ non vuol dire fare un’opera assolutamente privata e non condivisibile. Alcontrario, si può fare dono del proprio scritto ad alcune persone selezionate con cui ci si sente in sintonia, per mettere in moto uno scambio di idee e sentimenti e lasciare che il proprio seme germini e si diffonda spontaneamente, là dove crediamo che possa essere meglio recepito. E’ probabile che si creeranno nuove interessanti connessioni. In ogni caso, lo sguardo dell’altro sarà un momento di importante verifica e stimolo.

  • Dare alla propria storia l’importanza che merita

Spesso i libri interessano gli editori quando rappresentano storie con effetti speciali alla Murakami, condizioni estreme alla Susak o coté piccanti alla E. L. James

La maggior parte delle storie di vita sono molto più sottili e mano appariscenti, ma non per questo meno rilevanti. Scrivere il libro della propria vita per se’ consente di sottrarre la propria storia a mistificazioni compiute in nome dei numeri, permette di scrivere con il solo scopo di celebrare la Vita come maestra, di individuare e riconoscere i punti salienti che hanno formato la persona che si è diventati.

  • Raggiungere obiettivi personali attraverso la scrittura

Lasciare una traccia di se’, colmare un vuoto, dare forma estetica alla propria Vita, riconciliarsi col passato, riaprirsi alla progettualità, scoprire le proprie radici, cercare una cura: sono diverse le ragioni che muovono uno scrittore prettamente autobiografo, ma tutte sono legate alla sfera privata, non a quella pubblica – da qui la non-necessità di rendere pubblica l’opera (così come suggerisce il verbo “pubblicare”).

Ciò detto, è probabile che il lavoro di stesura della propria storia sia un ottimo canovaccio da rielaborare creativamente per partire alla conquista del grande pubblico. Questa volta con tutta la progettualità che un potenziale best seller richiede.

 

 

tags: Personal Storytelling, Murakami, Susak, ELJames, autobiografia, autobiography, libera università autobiografia anghiari
categories: Personal Storytelling
Sunday 02.07.16
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Davines WWHT 2016 L.A. Report

Davines proposed the best of international coiffure with an extraordinary hairshow at the historic Orpheum Theatre located in downtown L.A., where over 2,000 attendants showed up to the two-day (January 18-19, 2016) annual event – World Wide Hair Tour. The fusion of videoart, music, dance and light breathed life into the creations of Davines’ most renowned hairstylists in the world. 

00:am has been working for months on the Show Artistic Direction: video&graphic backgrounds, video-stories, soundtracks, storytelling, choice of the theme, creative maps and new formats, like the World Style Contest’s competition one.

The number one star of the show was of course the hair genius Angelo Seminara, Davines Artistic Director since 2011, who performed in two amazing shows –Monday & Tuesday– that simply mesmerized his audience. Angelo took this opportunity in the spotlight to present Davines’ new line Your Hair Assistant, conceived and designed by himself.

Among the talent that was gracing Orpheum Theatre was legendary cinema hairdresser Aldo Signoretti, amazing Canadian hairstylist Anna Pacitto, Danish dynamic duo Brian & Kirsten, the sublime team of ION Studio NYC, the extraordinary Anthony Polsinelli, UK London's education gurus Allilon Education Team led by Johnny Othona and Pedro Inchenko, and the Davines North America Artistic Team made by Francesco Ferri, James Abu Ulba, Lina Shamoun and Naomi Knights. 

Davide Bollati, the Owner/Chairman of Davines, shared with the audience I Sustain Beauty, a callout for everybody to participate in making the world a more beautiful place and the Davines Village, the architecture project for the company’s new headquarters in Parma designed by Matteo Thun.

Davines CEO, Paolo Braguzzi, explained to the audience what B.Corps are - companies who use business to do something good for the world - and proclaimed the company’s intention to join the global B.Corps Movement in the next few months.

tags: Davines, World Wide Hair Tour, Angelo Seminara, Aldo Signoretti, I Sustain Beauty, B Corporation, Allilon Education, Hairshow, Events
Sunday 01.24.16
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Hair Show Storytelling - DAVINES WWHT 2016 LOS ANGELES

Quello dei parrucchieri è un mondo a sé. Difficilmente catalogabili, artistoidi, entusiasti e sempre appassionati di qualcosa, dalla cucina creativa al teatro sperimentale. Vederli tutti insieme in uno di quegli eventi professionali di cui i non addetti ai lavori non sospettano minimamente l’esistenza, fa quasi impressione.

Io, che a molti di questi eventi partecipo dietro le quinte, ho avuto modo di a osservarli per bene: quelli che siedono in platea sono mossi da quella fame di cui parlava Mr Apple e da un'ammirazione stupita, come una matricola di sociologia inaspettatamente a tu per tu con Zygmunt Bauman.

Quelli che si esibiscono riescono a creare on stage magie che vanno ben oltre un taglio, facendo uscire dalle loro mani giochi di prestigio, affreschi di visioni con coordinate spazio temporali disparate e sempre intensamente vivide.

Fra pochi giorni, il 18 e 19 gennaio 2016, arriverà il momento di mettere in scena la 17ma edizione del WWWH, evento che la haircare company Davines organizza ogni anno in una top location del globo. Quest'anno sarà la volta di Los Angeles ed io ci sarò.

Non sono elettrizzata solo perché dopo tanto tempo torno a fare una trasferta cosi lontano, perché per la prima volta i miei bambini faranno l'esperienza di vivere 9 giorni con amici, perché non mi sembrerà vero di fare solo lavoro professionale per una settimana (e zero lavoro domestico!) ma... Perché per la prima volta lo storytelling è entrato nella creazione del WWHT!

Innanzitutto, a differenza di tutte le edizioni precedenti, in cui ogni stilista sceglieva individualmente il tema a cui ispirarsi per mettere in scena la sua collezione di immagini, abbiamo scelto di dare un tema comune.

Non solo. Abbiamo scelto un tema meta narrativo (che ha a che fare in sé e per sé con la narrazione): la creazione del personaggio. Ad ogni stilista è stato chiesto di mettersi nei panni di un regista teatrale o cinematografico, creando dei personaggi che raccontino una storia.

Ho confezionato una “Guida in 10 punti per creare uno show di successo” e mi sono divertita a supportare gli stilisti con una fucina di idee, script e spunti per contestualizzare in una narrazione i loro stimoli visivi.

Cosi - secondo la filosofia del personal storytelling - ad ognuno il suo: il tema del doppio nei supereroi dei fumetti anni ’60, lo stile memoir scritto a lettera 24, l'amore catartico di Romeo e Giulietta di Shakespeare visto con le lenti strobo di Baz Luhrmann, l’estetica della percezione di Peter Hoeg nel suo “Il senso di Smilla per la neve”, fino alla fiaba della natura e del paesaggio “Il giardino delle meraviglie” di Hans Christian Andersen.

Ora ... the show must start! Ed io non vedo l'ora di schiacciare Play All e scoprire che forma avranno preso le storie tra le mani dei parrucchieri.

Elisa Giulietta

tags: Storytelling, Davines, World Wide Hair Tour, WWHT2016, giulietta kelly, Personal Storytelling, Angelo Seminara, 00:am
Tuesday 01.12.16
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Scrivere: una chance per le “Precious Girls”

Difficile prendere sonno dopo aver visto Precious, il film del regista Lee Daniels, prodotto da Oprah Winfrey, vincitore nel 2010 di 2 Oscar, 1 Golden Globe, del Sundance Film Festival e molti altri prestigiosi riconoscimenti per le interpretazioni dell’attrice comica Mo’Nique nelle vesti della madre e di Gabourey Sidibe in quelle della figlia Precious.

Nonostante il personaggio della protagonista Precious sia un’invenzione della scrittrice Sapphire, dal cui romanzo “Push” è tratta la sceneggiatura del film, si sa che di storie tragiche come quella di Precious è pieno il mondo. Non a caso il primo titolo di coda è in realtà una dedica “For all Precious girls everywhere in the world”.

E’ opprimente, claustrofobica, di una durezza spesso insopportabile la condizione della teenager Precious, che vive in un appartamento soffocante di uno squallido palazzo ad Harlem con la madre abbrutita fino al disumano dalla violenza e dalla gelosia verso la figlia follemente percepita come rivale in amore, in quanto abusata dal padre dall’età di 3 anni. Precious ha già avuto dai rapporti col padre una figlia di pochi anni, che - avendo la sindrome di Down - viene chiamata “Mongo” ed è incinta di un altro figlio incestuoso.

Precious ha un buon carattere, o forse semplicemente non si ribella per incapacità di gestire la solitudine e per paura di non poter vivere senza il sussidio della madre. Vorrebbe essere bianca, coi capelli lunghi e magra. Invece ha i capelli corti, è nera e obesa, talmente obesa che il grasso delle guance e della fronte le nascondono gli occhi. Sogna di essere una popstar, una fotomodella, una cantante gospel – invece è analfabeta e la preside della scuola, quando scopre la sua gravidanza, la spedisce in una scuola alternativa. Qui Precious incontra la Signorina Rain, che insegnerà a lei e alle altre ragazze disagiate della piccola classe a leggere e scrivere. Ma la Signorina Rain sa che conoscere l’alfabeto non è un’abilità fine a se stessa, ma lo strumento fondamentale della comunicazione. Così, stimolando l’apertura, l’espressione, la condivisione, pian piano la disperazione, l’introversione, la sfiducia, la rassegnazione e la mancanza di autostima di Precious si trasformano. Dal non riuscire a nominare nemmeno una cosa che sa fare, Precious arriverà a scrivere favole e poesie e, soprattutto, a raccontare di se’.

Non fa null’altro, la Signorina Rain. Niente storia, geografia o matematica. Solo scrivere di se’, dei propri desideri, aspettative, delusioni, errori e speranze. Perché – come scrive Karen Blixen ne “La mia Africa” - “Solo scrivendo si può rendere il dolore più tollerabile”.  Lungo il processo di auto-salvazione di Precious, ci sarà un solo momento in cui la scrittura sarà troppo debole per compiere il miracolo. Quando, dopo aver partorito un figlio sano e bello tra il conforto delle compagne di scuola, aver lasciato la casa della madre, aver passato il Natale dalla Signorina Rain e aver trovato una casa d’accoglienza, Precious scoprirà di essere sieropositiva. Quel giorno Precious, in classe, si rifiuta di scrivere.

Il dolore, la rabbia, la preoccupazione sono troppo grandi per essere contenuti nella scrittura. “Scrivi, scrivi” la esorta piangendo la Signorina Rain. “Non posso.” “Scrivi per chi ti ama.” “Non mi ama nessuno. L’amore mi ha fatto del male.” “Non era amore, quello che ti ha fatto male. Tuo figlio ti ama.”

Anche Precious ama suo figlio, entrambi i suoi figli, riuscendo incredibilmente a superare l’eredità di odio ricevuta. In questo è lei la maestra più grande. Tanto che, quando alla nascita del piccolo, la Signorina Rain vuole convincerla ad affidarlo ad una famiglia per poter essere libera di prosegure gli studi e non essere costretta a lavorare come domestica a 3 dollari l’ora, Precious le risponde “Lui ha bisogno di me, solo io posso dargli quello di cui ha bisogno ora” soffocando il piccolo viso di Abdul con l’enorme seno da cui il neonato succhia il latte.

English trailer

https://www.youtube.com/watch?v=06ZF3zw1gHs

 

 

DAL 26 NOVEMBRE AL CINEMA Vincitore di numerosi premi internazionali, tra cui due premi Oscar e due premi al Sundance Film Festival, PRECIOUS di Lee Daniels è un'incredibile racconto sulla capacità di crescere e superare gli ostacoli. Ambientato nel 1987, è la storia di Claireece "Precious" Jones, una ragazza di sedici anni cresciuta in un mondo che nessuno mai vorrebbe conoscere.

tags: scrittura, scrittura autobiografica, scrivere di se', precious, sapphire, oprah winfrey, lee daniels, mo'nique, Gabourey Sidibe, personal storytelling, giulietta kelly
Wednesday 01.06.16
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La beatitudine della scrittura

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Delle 9 beatitudini citate da Gesu’ nel discorso della montagna, ce n’è una in particolare che è stata oggetto della conferenza tenuta in questi giorni a Parma dal Prof Duccio Demetrio, guru italiano in fatto di autobiografia, fondatore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari.

Qual è? La misericordia.

Che rapporto c’è tra uno scrittore non credente, una parola trascendente e una pratica apparentemente obsoleta in età di social network, come l’autobiografia?

Come ho già scritto nel post "Riconciliarsi col passato", prendendo spunto dalle riflessioni di Michela Marzano, la scrittura offre una preziosa occasione di ri-affezione a se stessi.

Ma la misericordia è qualcosa di generalmente associato alla relazione con l’altro: smontando la parola, troviamo un etimo che ci parla di “cor” latino e di misereo, di miseria altrui, di compassione che ci porta istintivamente a sentire il dolore dell’altro.

Ecco allora che, rimanendo in questa accezione relazionale della parola, Demetrio cita l’arguta trasposizione contemporanea delle 7 opere di misericordia corporale proposte nel libro “Compassione”  del medico Giorgio Cosmacini, in cui ogni stazione viene presentata rovesciata: il dar da mangiare agli affamati si ribalta nell'esigenza di sottoalimentare gli obesi; dar da bere agli assetati si inverte nella regola di disassuefare i bevitori; vestire gli ignudi si trasforma nella resistenza alle invadenze della moda; alloggiare i pellegrini nel non respingere gli immigrati; visitare i malati nel non perdere il dialogo con i pazienti; visitare i carcerati è il non aggiungere pena a pena; seppellire i morti si traduce nel rispetto della dignità e della volontà di chi muore.

Ma introdurre il tema della scrittura autobiografica sposta il tema della misericordia su un piano tutto intimo e personale. Chi è il prossimo dentro di noi? Chi è, direbbe Anna Frank, quell’Anna “meno” che ha bisogno di essere perdonata dall’Anna “più?”

In fin dei conti, anche il perdonare se stessi non è cosa da poco, e la scrittura offre un valido aiuto a chi vuole farlo, guardando in faccia uno per uno i propri errori, schivando la tentazione di facili auto-assoluzioni.

Anzi, andando oltre, si potrebbe dire che proprio imparando a riconoscere dentro noi quel prossimo che ha bisogno di essere accettato , quella parte di noi che meno ci piace vedere, che consideriamo “altra da noi”, possiamo imparare ad accettare gli altri fuori di noi, perché – in fondo – gli altri sono dentro di noi, così come noi siamo dentro gli altri.

Ci sono situazioni in cui si passa tutta la vita a cercare di perdonarsi, con grande sofferenza, senza mai riuscirci fino in fondo.

E’ stata emozionante la lettura di un paio di poesie di un detenuto del carcere di Opera; versi scritti con “stimmate d’inchiostro” (cit.), desiderosi di tenere accesa la candela di una dolorosa memoria, onesti nel ripercorrere ogni passaggio di nottate perverse e violente, ancora capaci di stupore al pensiero di tramonti invisibili dietro il filo spinato, eloquenti nel trasmettere la sofferenza infinita di chi paga, sia pur meritatamente, con la perdita della libertà.

Trapelano, dalle poesie di questo detenuto, la caparbietà e la determinazione di chi vuole resistere alla propria storia, assumendosene la responsabilità fino in fondo, senza cedere a fughe reali o sintetiche.

Una fatica di vivere e di scrivere, che nasce dalla volontà strenua di essere misericordiosi con se stessi, quando sarebbe più semplice odiarsi o dimenticarsi di sé. Ma la misericordia non è cedimento: è resistenza e coraggio.

Oggi più che mai, in un momento storico in cui occorre trovare un modo nuovo di reagire alla brutalità, un modo che non sia né resa né attacco, è una parola su cui riflettere. 

tags: Duccio Demetrio, LUA, Libera Università Autobiografia Anghiari, scrittura, autobiografia, autobiography, metodo autobiografico, Personal Storytelling, Cosmacini, misericordia, beatitudine
Wednesday 11.18.15
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Scrive l'autobiografia chi ha successo - Successful people writing their autobiography

Cos'hanno in comune Lena Dunham, Amy Schumer e Katy Perry? Il fatto di avere scritto la loro autobiografia a 30 anni - ben prima del tempo dei bilanci tipici della mezza età - e il modo in cui l'hanno fatto. Prima di diventare famose avevano vite normali, quindi hanno voluto raccontare storie di successo ad uso e consumo di aspiranti celeb, per indicare la via a chi ha voglia di sfondare. Il modo in cui l'hanno fatto è quasi sempre l'ironia, quella giusta distanza che permette di accettare le proprie imperfezioni sino a farle diventare il proprio punto di forza.

What do Lena Dunham, Amy Schumer and Katy Perry have in common? The fact of writing their autobiography in their thirties - well ahead the time of middle aged analysis - and the way they did it. Before becoming famous, they had normal lives, so they wanted to tell their success stories for wannabe celebs, to show them how to hit the big time.

 

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tags: autobiografia, libera università autobiografia anghiari, autobiography, metodo autobiografico, Lena Dunham Amy Schumer Katy Perry, Katy Perry, Amy Schumer, Lena Dunham, irony, ironia, Anghiari
Wednesday 11.11.15
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Little Memories - autobiografia a misura di bambino

Per la matematica c’è Team Umizoomi, per l’inglese Disney Magic English, per le abilità musicali e il problem solving Dora l’Esploratrice: il palinsesto TV pullula di cartoons con finalità educative esplicite. Ma tra le materie del piano di studi televisivo per bambini in età prescolare mancava la psicologia, e allora è arrivato al cinema con Inside Out un film che parla proprio di questo, con il ritmo e la genialità iconica di Disney Pixar. 

Ecco allora le emozioni diventare personaggi che, tra un pasticcio e l’altro, proteggono la protagonista Rylie dai pericoli (Paura), la aiutano a trovare empatia (Tristezza), la salvano da possibili avvelenamenti (Disgusto), la fanno lottare contro le ingiustizie (Rabbia), fanno l’impossibile per compiere la missione di far felice Rylie (Gioia). 

Gioia è la leader del gruppo delle emozioni, quella che sente la responsabilità maggiore verso Rylie e che lotta per difendere il primato del pensiero positivo, salvo poi rendersi conto sul finale che la sua “ombra”, Tristezza, può essere in alcuni casi più utile di lei (e meno male! altrimenti chi, come me, è ormai affezionata alla propria ineludibile vena tragica e introversa avrebbe trovato un po’ falsata e superficiale la felicità sempre e a tutti i costi).

Allo scenario il compito di illustrare le funzionali celebrali della memoria, dell’astrazione, del subconscio, dell’immaginazione, del pensiero, della personalità - sotto forma di trenini, biblioteche, scantinati, luna park, deserti neri, isole fluttuanti.

Ma cosa c’entra tutto questo con il Personal Storytelling?

C’entra, perché questo film porta un linguaggio nuovo nell’ambito biografico e autobiografico, che tende solitamente ad avere una vena malinconia, data per scontata dal senso comune quando si parla di passato, di ricordi, del “c’era una volta, la mia storia”.  

Qui invece, al di là del fatto che l’aspetto divertente è dettato dalla natura di film di intrattenimento per bambini, c’è un atteggiamento diverso verso la memoria. I ricordi sono biglie di vetro contenenti le immagini dell’evento ricordato, che cambiano colore a seconda dell’emozione prevalente che li contraddistingue. Ci sono ricordi secondari e primari, ricordi del giorno e ricordi archiviati nella sterminata biblioteca della memoria a lungo termine, ricordi chiamati all’appello per rivivere nel centro di comando del cervello e ricordi caduti nel burrone dell’oblio, e persino ricordi-tormentone (per Rylie è la pubblicità di un dentifricio - e la capiamo bene, chi non ha in testa un motivetto assurdo che vorrebbe dimenticare senza riuscirci?). 

Ma i ricordi non sono immutabili, al contrario possono cambiare la loro posizione nel cervello - la sinapsi attivata dal ricordo di un amico immaginario porta fuori dal buio il ricordo di un razzo magico usato nel gioco con lui - ma, soprattutto i ricordi possono trasformarsi, cambiando la loro tonalità emotiva.

Lo sapeva già oltre 100 anni fa Marcel Proust, rendendosi conto nello scrivere la sua Recherche du Temps Perdu di aver ricordato più belli e colorati certi episodi di quanto in realtà non fossero stati, perché aveva trasformato il suo passato in un’epica dell’amore e dei turbamenti del suo tempo. 

Oggi l’intuizione di Proust è dimostrata scientificamente dalle neuroscienze, grazie ad esperimenti operati sulle cellule cerebrali delle rane e sui collegamenti sinaptici delle lumache di mare.  

Agli autori di Inside Out non poteva certo sfuggire questo aspetto. Proprio qui si gioca infatti la diatriba tra Gioia e Tristezza, gelosa custode dei ricordi primari di Rylie la prima, irresistibilmente attratta dagli stessi elementi costituitivi della personalità la seconda, però costantemente allontanata dalla prima perché considerata dannosa per la felicità di Rylie.  

Nel finale a sorpresa i ricordi primari, custoditi e difesi da Gioia nelle sue mille peripezie da incombenti cadute e dalla grinfie di Tristezza per tutta la durata del film, dovranno proprio passare da Tristezza perché Rylie possa comunicare il suo malessere ai genitori e ritrovare così la loro comprensione.

tags: Inside Out, Disney Pixar, Personal Storytelling, memoria, psicologia, emozioni, gioia, tristezza, paura, Rylie, autobiografia, biografia
Wednesday 10.28.15
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Health Storytelling: the University of Parma launches an interdisciplinary research project

I was looking online for a Duccio Demetrio's speech near Parma for my dance teacher, who has read all of his books but never had the chance to meet him, when I came across a brand new Master in Health Storytelling, promoted by the Department of Surgery Sciences of the Parma University.

This breaking news struck my attention as it somehow affects my predictably well-defined further educational plans about autobiography.

I asked for more information and straight away I got an appointment with the scientific coordinator Ms. Giovanna Artioli - nurse and Professor.

Its clear that the American theory of narrative medicine by Rita Charon is drawing crucial development directions in health professions and such a master is an opportunity for doctors, nurses and any health professional to integrate in the daily practice a new method to better understand and take care of patients, aiming to an ideally customized medicine.

But my main question was about that single tiny line of the call, stating that the master is open to graduates in humanistic disciplines, too.

But why? How? What's the idea behind it? Maybe the introduction of storytelling experts into hospitals, specialized into honouring the stories of illness and stimulating health and awareness into patients, by reconstructing their stories?

No - Giovanna is honest and erases all doubts. “We're still far from that. Moreover increasing spending review and staff cuts row against.”

But, on the other hand, she talks to me about the “behind the scenes” of this master. And this is really interesting.

"The theoric basis of this master is to try to create and interdisciplinary group, working together on the new frontiers of health storytelling, connecting their different skills, applying them in an experimental environment, leading new researches in the fields of therapeutic emplotment, autobiography, patients’ agenda and other narrative areas.”

The strategic direction I can imagine from her words, is in the effort to overcome the antithetic juxtaposition of science and humanism, by trying to assimilate positivism and phenomenology.

Students are expected to be doctors and nurses for sure, but also psychologists, sociologists, writers, teachers. The same set of proficiencies will mark the professors team, built in part with the collaboration of the Libera Università di Anghiari.

The content list of the master described in the call can be considered pretty vague, but this is related to the learnig-by-doing principle of the experimental approach.

“Wow” I said to myself. That's pioneering. Looking for union in the academic world - whose history is made by hundreds of centuries of splitting the knowledge into categories and disciplines. And, most of all, doing it with a deeply noble cause: improving the health system, hence improving health itself.

Perfectly in tune with my personal era - which could be defined "in search of unity".

 

 

Download the call

 

tags: Giovanna Artioli, Duccio Demetrio, Università Parma, Parma University, LUA, Libera Università Autobiografia Anghiari, Rita Charon, Master in Health Storytelling, Master in pratiche narrative
Wednesday 10.07.15
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Social-freezing or work-life balance?

A couple of days ago I took part to a convention about artificial insemination organized by Il Mondo Yoga Studio and the Parma Azienda Ospedialiera Universitaria. Dr. Lorenzo Barusi mentioned Social Freezing, something that struck my attention and made me inquire the issue.
Apple and Facebook have an odd perquisite for their employees - they will pay for their employees as much as $20,000 to place oocytes in frozen storage, also known as cryopreservation and egg freezing. The combination of the two concepts has coined the expression of “social freezing”.I’m asking myself and you: why should women accept this offer?

Why should they give up natural conception in their young age to choose for egg freezing?

I think that, first of all, women should realize that behind this offer there is an economical need for more productivity, because by eliminating a biological clock for women, companies can reduce turnover and keep employees working longer hours, which will close that pay gap between men and women.

Then, they should realize that behind this offer there is a social problem. Still, women have to choose between career and family, while men have not.

Freezing eggs entrenches the false belief that women cannot be good mothers and good employees at the same time. Freezing eggs could slow down the raising power of women in working places, as recent researches state that the daughters of working women are more prone to make a career then daughters of housewives - or women close to retirement, as it would happen in this case.

But the main question is: why are we offering a medical solution to a social problem?

And again: how much does women know about these new techniques? 

Do they know enough to weigh the realistic chances of success and the potential risks for both mother and child?

In a newly published review in Deutsches Ärzteblatt International, Michael von Wolff et al. outlines what needs to be considered before oocytes are placed in storage.

“The principal advantage of social freezing is the ability to delay having children. Disadvantages are the high costs, the high rate of multiple pregnancies following artificial insemination and the elevated risk of complications that brings. The likelihood that in vitro fertilization will result in birth is estimated at up to 40 % for women under 35, but only 15 % above the age of 40. Furthermore, women over 40 are more likely to suffer from diseases of pregnancy such as pre-eclampsia or gestational diabetes.” 

Finally, I think that women should see in this apparently noble offer the statement of appreciation of their value and skills  and should take from this the courage to stick to their own deep desires, even when they are in conflict with the system.

Because by now the system can hardly do without them.

Citation: von Wolff M, Germeyer A, Nawroth F: Fertility preservation for non-medical reasons—controversial, but increasingly common. Dtsch Arztebl Int 2015; 112: 27–32.

tags: Lorenzo Barusi, Università di Parma, Azienda Ospedaliera di Parma, Social freezing, Entrare nel ciclo della vita, Il mondo yoga studio, Eugenia Calunga, Verena Schmidt, Apple, Facebook, Michael von Wolff, Deutsches Ärzteblatt, PMA, fertility, artificiùal insemination, artificial insemination
Monday 10.05.15
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Michela Marzano su “Riconciliarsi col passato”

Cosa vuole dire ereditare?

Cosa riceviamo in eredità? Solo beni materiali o anche immateriali?

Cosa ci viene trasmesso oltre al cognome? Oltre al valore, agli affetti, alla cultura?

L’eredità è sempre consapevole, oppure anche incoscia e quindi involontaria?

Cosa vuol dire riconciliarsi col passato?

E’ iniziata con queste domande la lectio magistralis della Prof.ssa Michela Marzanodocente di Filosofia morale presso l'università Paris Descartes e deputato PD al Festival Filosofia Modena 2015.

L’ipotesi formulata dalla filosofa, è che si può riconciliarci col passato trovando un equilibrio tra fedeltà e tradimento, in particolare rimanendo fedeli all’unica cosa indispensabile per essere noi stessi e tradendo tutto quello che non ci è stato trasmesso con amore, ma ordinato con la minaccia.

Massimo Recalcati in “Le mani della madre”, descrive il padre come colui che trasmette la legge e la madre come il primo soccorritore, colei che trasmette il senso della vita, che salva dalla caduta nel non-senso.

Quando questi due elementi non esistono, la trasmissione non avviene. 

Se il padre non è capace di trasmettere la legge e la madre non soccorre con amore, avvengono delle ferite gravi. 

Come potrà il figlio curare queste ferite del passato? 

Come potrà imparare ad articolare il desiderio, ad ascoltare il proprio Daimon - direbbe James Hillmann - , se questo desiderio sarà in contraddizione con l’imposizione subita del “Tu sei questo”? 

Come potrà accogliere con amore la propria voce interiore, se lui stesso non sarà stato accolto fin dall’inizio della vita con amore, ma sarà stato pietrificato da uno sguardo di Medusa, che avrà fatto a pezzi la possibilità di creare fiducia in se stesso? 

Il rischio di diventare auto-pietrificanti c’è, ed è elevato.

Ma qual’è la via d’uscita? 

“Non c’è parola senza risposta, anche se l’unica risposta è il silenzio”, scrive Jacques Lacan. Questa è una regola della psicanalisi, secondo la quale è sufficiente che la parola trovi nell’altro un’accoglienza silenziosa, uno specchio che permette di vedere e capire. Questa chiarezza è data dalla possibilità di ascoltarsi e capirsi grazie all’ascolto dell’altro.

Questo processo non è esclusivo della psicanalisi, bensì può – anzi dovrebbe – essere una modalità propria della relazione, nella forma del Dialogo, che etimologicamente significa “azione del parlare tra due persone”.    

Purtroppo oggi si fa fatica a trovare ascolto, quell’ascolto in cui la risposta silenziosa e senza giudizio è specchio, anche quando la parola altrui rimane incomprensibile, perché derivante da un’esperienza altra, da un’alterità sconosciuta e che fa paura. 

L’ascolto che rende possibile la narrazione di sé è ciò che consente di fare i conti con il proprio passato, di far emergere i ricordi in modo non astratto ma vivo (l’etimologia di ricordare significa “riportare al cuore”). 

“Faremo pace coi nostri ricordi quando arriveremo a sentirne il profumo” scrive la Prof.ssa Michela Marzano nel suo “Volevo essere una farfalla”. 

E nel documentario sulla sua vita, la cantautrice inglese Amy Winehouse dice: “Tutti i testi delle mie canzoni sono autobiografici. Non potrei scrivere di nulla che non conosco, che non sia strettamente legato alla mia storia personale. Quando scrivo d’amore, ad esempio, quando scrivo di un uomo, devo tornare a ricordare tutto di lui, anche il profumo del suo collo”. Questo è quel ricordare che permette di rivivere il proprio passato in modo catartico, per ri-superarlo e quindi imparare ad accettare la vulnerabilità, le imperfezioni, il giudizio negativo, la sensazione di non essere all’altezza.

Scrive Paul Ricoeur: “L’unico modo che abbiamo di conoscerci è raccontarci, raccontando anche quello che non abbiamo vissuto, perché ci è stato negato o imposto”. 

Ricordare, riconoscere a accettare anche ciò che non abbiamo vissuto ci apre ad una visione più integra di noi stessi, comprensiva di tutte le nsotre potenzialità, anche quelle che non abbiamo espresso.

E accettare di essere “diseredati” – perché non corrispondiamo alle aspettative che altri hanno proiettato su di noi – significa aprisi gioiosamente al futuro, ad un futuro in cui si prende la responsabilità della propria vita, abbandonando le recriminazioni, frutto di quello che Lacan chiama sentimento di “juissance mortifère” (godimento mortifero), cioè dell’atteggiamento vittimistico di chi, colpevolizzando gli altri, sposta fuori da sé la responsabilità della propria vita.

La riconciliazione con il passato è possibile se si riesce a capire che l’assenza permarrà, che non ci sarà risarcimento né riparazione, perché non è possibile cambiare il passato.

E se capiamo che l’assenza è stata causata da una “tara ereditaria”, cioè da un buco perpetuatosi nel tramandare con amore legge e desiderio. 

Questo è, a grandi linee e con parole mie (anche il riferimento a Amy Winehouse è mio, non vorrei attribuirlo alla Professoressa, che forse lo troverebbe troppo “pop”, anche se Amy era jazz), l’intervento di Michela Marzano al Festival Filosofia di Carpi, in una vastissima e rilassatissima Piazza Martiri, illuminata dal sole di un settembre tropicale e sovrastata da un cielo azzurrissimo decorato dalle scie di molti aerei.

La Prof.ssa Marzano – o Michela, come ha detto di voler essere chiamata quando non Professoressa – ha dovuto tagliare il suo intervento, perché il tempo era scaduto. Peccato. Sarei stata molto curiosa di poterlo sentire integralmente. 

Mi chedo se in quel pezzo mancante avrebbe parlato di come imparare non solo ad accettare il proprio passato, ma anche ad amarlo. Ad amarlo tutto, inclusi il dolore, le imperfezioni, le mancanze, che ci hanno reso quelli che siamo, con le nostre forze e le nostre fragilità, con i nostri traguardi e i nostri desideri.  

Mi chiedo se avrebbe parlato di come possiamo imparare ad amare la nostra storia e riconoscervi una specie di traccia - quello stesso disegno da noi amato e scelto prima di venire al mondo e poi dimenticato.

tags: personal storytelling, michela marzano, festival filosofia, riconciliarsi col passato, amy winehouse, massimo recalcati, james hillmann
Monday 10.05.15
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Body Word, laboratorio di Danza-Scrittura, a partire da settembre 2015

Sentire nel corpo cosa significa essere equilibrati, centrati. Avvertire il peso, assecondarlo, cedere alla gravità. Essere consapevoli di sé, del proprio ingombro nello spazio, delle direzioni in cui ci si muove. Avvertire il corpo degli altri, muoversi insieme agli altri. Lasciarsi guidare dal movimento primordiale. Seguire il proprio ritmo.

Infine trovare il dialogo di corpo, mente e anima, attraverso la ricerca della parola poetica.

Tutto questo nel laboratorio di Body Word (danza-scrittura) condotto da Giulietta Kelly, basato sull’integrazione di Danza Contemporanea e Metodo Autobiografico.

 

Feeling what it means being balanced. Perceiving weight, following it, surrendering to gravity. Being aware of one’s body, of its place in space, of its directions. Knowing about other bodies’ presence, moving together. Letting oneself be guided by elementary movement. Following one’s own rhythm.

Finally, finding a dialogue among body, mind, soul, through poetry.

All this, in the Body Word laboratory, guided by Giulietta Kelly, weaving together Contemporary Dance and the Autobiographic Writing Method.

INFO E ISCRIZIONI

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tags: body word, danza contemporanea, poesia, il mondo yoga studio, eugenia calunga, giulietta kelly, metodo autobiografico, libera università autobiografia anghiari, LUA, Lucia Nicolussi Perego, Ariella Vidach, MK Michele di Stefano, Monica Francia
Friday 07.31.15
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1, 2, 3 BookTribu!

Da oggi comincia una nuova avventura: lanciare BookTribu e aiutarla a diventare più grande, più ricca e più bella! Ma...cos'è BookTribu? E' una piattafroma web unica nel suo genere e start-up della cultura: è sia casa editrice online per talenti emergenti, sia social network per scrittori, illustratori, editor ed amanti della lettura. Per loro - in team con SQuola di Blog - ne penseremo delle belle! 

Wednesday 05.06.15
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In cucina coi ricordi / Cooking Memories

In Cucina coi Ricordi

Mezza dose di sapori e aromi, un cucchiaio di memoria, una manciata di scrittura: questi gli ingredienti-base di un laboratorio che gioca a mettere alla prova il cosiddetto fenomeno-Proust, per cui gusto e olfatto scatenano lampi che illuminano gli angoli più bui della nostra memoria. I partecipanti degustano piatti legati alla loro vita e scriveranno la loro storia. Dulcis in fundo, il progetto grafico: ognuno confeziona storie e ricette in uno scrapbook, con materiali dal design ricercato e l'ausilio di attrezzi Sizzix.

Half a dose of spices, a spoon of memories, a handful of writing: these are the key-ingredients of a lab proofing the so-called Proust-phenomenon, saying that taste and smell arouse the darkest corners of our brains. Participants taste courses from they life story and will write about them.  Dulcis in fundo, the graphic project: everyone creates his/her own diary&recipe scrapbook, with high design materials and Sizzix tools.

 

Idea and direction: Elisa Barbieri (aka Giulietta Kelly)

 

11.04.2015 h 9-13 incontro di degustazione e scrittura

c/o Cooperativa La Bula, Strada Quarta 23, Parma

28.04.2015 h 19-20  incontro di scrapbook

c/o Distretto Soci Coop, via Mansfield 2, Parma

Iscrizioni: rosilisp@hotmail.com

 

 

Monday 04.06.15
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Labirinti del Male a Milano

LDMposter

Sabato 22 novembre h 21 l'opera di teatro didattico Labirinti del Male di Giulietta Kelly e Luciano Garofano, regia di Alessandro Molinari, con Luciano Garofano, Giorgia Ferrero e Laura Trent andrà in scena all'Auditorium San Luigi di Garbagnate Milanese (MI). In attesa della giornata mondiale per combattere e prevenire la violenza sulle donne, noi facciamo la nostra parte così. E voi? Venire, partecipare è conoscere e imparare a difendersi. Vi aspettiamo. 

Source: www.labirintidelmale.it
Friday 11.21.14
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